Breve STORIA DEL JAZZ

BREVE STORIA DEL JAZZ

 

 

 

GLI  STILI 

  1. RAGTIME
  2. NEW ORLEANS
  3. DIXIELAND
  4. CHICAGO
  5. SWING
  6. BE-BOP
  7. COOL
  8. HARD-BOP
  9. MODALE
  10. FREE JAZZ
  11. JAZZ ROCK
  12. FUSION
  13. ACID JAZZ
  14. Albums consigliati

 

 

 

1 -RAG TIME

Impropriamente molti storici fanno rientrare negli stili

jazzistici il ragtime. Diciamo impropriamente, perché al

ragtime manca una delle caratteristiche essenziali del

jazz: l’improvvisazione. Il ragtime è infatti frutto della

composizione ed è musica scritta essenzialmente per

pianoforte. Quello che lo avvicina al jazz è il senso del

ritmo: lo swing e la comune derivazione afro americana.

Lo avvicina al jazz, infatti, il fatto di essere una musica di

immediata derivazione nera. Il suo repertorio è

immensamente vasto e raccoglie oltre ai temi originali,

composti dai suoi esponenti più qualificati, melodie che

derivano dalla musica occidentale tanto bandistica che

classica, da Schubert a Chopin, dalla marcia al valzer, il

tutto filtrato ed interiorizzato entro il modo di sentire la

musica tipicamente nero.

Un altro importante elemento che avvicina il ragtime al

jazz è il fatto che questo genere musicale si suoni

prevalentemente nei bar di St. Louis, nei teatri di Kansas

City, nei bordelli di New Orleans: importante perché

come nel jazz i musicisti fanno del ragtime, di questo

singolare modo di suonare il pianoforte, il loro lavoro, la

loro fonte di sostentamento. Da sempre, infatti, e

specialmente alle origini, suonare la loro musica è stata,

per i neri, un importante fonte di occupazione libera

nell’ambito delle ristrette possibilità a loro offerte

dall’economia bianca degli Stati Uniti. Figura di spicco del

ragtime è stato Scott Joplin, nato in Texas nel 1868,

principale compositore e pianista, i cui temi sono rimasti

nel patrimonio musicale jazzistico e non.

 

 

 

2 – NEW ORLEANS

La città di New Orleans, sul finire dell’800, era un

insieme di popoli e razze, essendo stata dominata, nel

tempo da spagnoli, francesi, inglesi e anche italiani.

La tradizione vuole che in questa città sia nato il jazz:

ovviamente questa è più che altro una convenzione

legata essenzialmente alla leggenda della musica afro

americana. E’ infatti noto che in molte zone degli Stati

Uniti, praticamente contemporaneamente, il particolare

modo di vivere la musica da parte dei neri era presente

sin da epoche remote.

New Orleans costituì, però, il centro cristallizzante delle

tendenze e degli stilemi originari del jazz.

Nelle sue strade, infatti, da sempre si potevano ascoltare

canzoni popolari inglesi, danze spagnole, marcette alla

francese, bande militari; oppure era molto frequente

sentire nell’aria le più svariate linee melodiche uscire

dalle diverse chiese cattoliche o battiste, metodiste o

puritane: tutti questi suoni mescolati divennero ben

presto patrimonio delle comunità nere che le eseguivano

alla loro maniera, ricollegandole alle antiche tradizioni di

derivazione africana.

Tutte queste forme ed insieme a queste i worksongs che

i neri cantavano nelle campagne durante il lavoro, gli

spirituals nelle funzioni religiose, i blues, si riversarono

tutte assieme nelle originarie e primitive forme del jazz.

Per questo New Orleans rappresentò il centro di

riferimento nel quale le varie tendenze della musica nera

trovarono il loro sbocco naturale dove – elemento

determinante – i primi veri professionisti del jazz

trovarono numerose possibilità di occupazione.

Fino agli anni trenta i principali musicisti di jazz

provenivano da New Orleans e la maggior parte di loro

aveva iniziato lì la sua carriera musicale.

Una delle caratteristiche forse più interessanti di New

Orleans è che nella città convivevano due comunità nere

profondamente diverse tra loro, ognuna con il proprio

patrimonio etnico e culturale: i creoli e quelli che

possiamo definire più genericamente i neri americani.

I creoli, di discendenza franco-coloniale, non avevano

condiviso le medesime origini dalla schiavitù dei neri

americani dal momento che i loro antenati erano stati

liberati molto tempo prima dai ricchi proprietari agrari

francesi.

Per questo sentivano molto più attenuata la originaria

discendenza africana e vivevano con minori remore la

contaminazione con la cultura bianca; anzi, avevano

radicata una profonda discendenza dalla cultura francese

e la loro stessa lingua proveniva dal francese e non era

l’inglese. Così mentre i neri americani costituivano la

parte più povera del proletariato di New Orleans, molti

creoli erano ben integrati nella realtà economico-sociale

della città e avevano una estrazione piccolo borghese; i

loro pregiudizi razziali nei confronti della rimanente

popolazione nera erano addirittura più forti di quelli dei

bianchi.

Questa contaminazione si riflesse ovviamente anche nella

tradizione musicale nera, nella quale i creoli introdussero

molti elementi della cultura musicale franco-europea.

Lo stile di New Orleans nacque dall’incontro tra questi

diversi gruppi: nello Storyville, il quartiere riservato alle

case di tolleranza, che con i suoi innumerevoli locali

costituiva un formidabile punto di ritrovo ed il trampolino

di lancio per i diversi musicisti e cantanti; nelle strade

della città, dove si esibivano le “bands” dei cortei funebri

che accompagnavano i defunti al cimitero suonando

musiche di circostanza e che tornavano in città suonando

musiche colorite e allegre; durante i festeggiamenti del carnevale

Lo stile di New Orleans è caratterizzato dall’esecuzione di

linee melodiche improvvisate in collettivo su semplici e

tradizionali progressioni armoniche, con la presenza

centrale di tre strumenti tromba, trombone e clarinetto

accompagnati da una sezione ritmica, che si inseguono

in un alternarsi di elementi contrappuntisti che si

innestano l’uno sull’altro.

L’elemento ritmico è molto vicino a quello della musica

bandistica di derivazione europea, con gli accenti che

cadono sul primo e sul terzo tempo di una battuta di quattro.

 

3 – DIXIELAND

Sin dalle origini il jazz non è stato prerogativa dei neri.

Già sul nascere, infatti, numerose “bands” bianche

suonavano alla maniera di New Orleans. La mitica figura

di Papa Jack Lane ci rivela, anzi, che erano frequenti le

“gare” tra bands bianche e nere.

Ma al di là dei contenuti leggendari, i bianchi

contribuirono certamente in maniera considerevole allo

sviluppo lessicale del jazz ed alla sua evoluzione.

Il modo di suonare dei bianchi era più razionale, più

costruito, più individuale, anche se, in molti casi, meno

spontaneo ed istintuale rispetto al modo di suonare dei

neri.

I bianchi del Dixieland rafforzarono la ricerca del suono

pulito, la completezza e la linearità delle linee melodiche

dell’improvvisazione, la riconoscibilità dei temi, la

cantabilità degli a solo e, soprattutto, l’individualità e

l’espressività del solista.

Il monopolio economico dei bianchi, inoltre, contribuì

senza dubbio in modo determinante alla notorietà del

jazz: di bands bianche furono, infatti, le prime incisioni

discografiche e, per un lungo periodo, i bianchi

rivendicarono la paternità del jazz.

Le orchestre come la Original Dixieland Jazz Band o la

New Orleans Rhythm Kings si esibivano con regolarità

nei grandi locali ed avevano più possibilità di quelle nere

di accreditare l’immagine del jazz presso il grande

pubblico. Con il termine Dixieland viene quindi definito il

particolare modo di suonare lo stile New Orleans da

parte dei bianchi.

Quando i confini tra bianchi e neri, almeno a livello

musicale, si attenuarono, con la nascita delle bands

miste, venne finalmente alla luce la vera peculiarità della

musica jazz, ovvero il fatto di essere una musica nata

dall’incontro di due diverse espressioni culturali

americane, quella nera e quella bianca, nel cui tracciato si è sviluppata

Chicago

CHICAGO

Chicago, capitale dell’Illinois, situata sulle rive del lago

Michigan ed importante nodo ferroviario e stradale,

divenne, alla fine del primo decennio del ‘900, il rifugio

dei musicisti che, rimasti senza lavoro a causa della

chiusura dello Storyville di New Orleans (voluta dalle

autorità militari statunitensi all’entrata in guerra degli

U.S.A. per non turbare i militari di leva nella città), vi

trovarono ospitalità nei numerosi club, music-hall e locali,

nell’ambito della più generale migrazione delle

popolazioni nere verso le terre del Nord.

Durante gli anni ’20, l’originario stile di New Orleans

trovò la sua vera fioritura in Chicago, e qui si affermò

definitivamente. Qui, Insieme allo stile di New Orleans

anche il blues trovò negli anni ’20, il suo periodo d’oro.

Nella southside di Chicago, il quartiere nero, si sviluppò

una fervente attività musicale e jazzistica. Qui vennero

incisi i primi capolavori del jazz da parte delle bands

guidate da King Oliver, poi da Louis Armstrong, Johnny

Dodds, Jelly Roll Morton, Jimmie Noone .

Contemporaneamente a questa massiccia affermazione

dello stile di New Orleans a Chicago, un gruppo di

musicisti bianchi, dilettanti e professionisti maturò una

propria interiorizzazione del jazz suonato dai neri, dando

vita ad uno stile proprio, lo stile di Chicago.

Ancora una volta come per il Dixieland, gli elementi della

cultura occidentale e bianca contaminarono

abbondantemente il jazz nero. Partendo dal modello di

improvvisazione collettiva dello stile New Orleans, a poco

a poco, la sensibilità bianca derivata dai modelli musicali

europei e folcloristici dello hillbilly e shiffle introdusse

soluzioni armoniche più raffinate e sempre crescendo, la

valorizzazione dell’elemento solistico che all’apice dello

stile di Chicago, si tradurrà nella preponderanza

dell’improvvisazione del singolo e nella dominazione del

sassofono, nonché nella nascita delle grosse formazioni

(Big Bands ), annunciando il jazz degli anni trenta e lo

stile Swing.

Tra i solisti di spicco: Bix Beiderbecke, Bud Freeman, Pee

Wee Russell, Muggy Spainer.

Chicago fu, dunque, un centro che segnò profondamente

l’evoluzione del jazz e rimase costantemente un

importante punto di riferimento per i musicisti, tanto è

vero che, negli anni ’60, diverrà uno dei più importanti

luoghi in cui si cristallizzeranno le tendenze

d’avanguardia musicalmente e politicamente più radicali

della cultura nero-americana, delle quali l’Art Ensemble

of Chicago rappresenterà il gruppo emblematico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SWING

Verso la metà degli anni venti gli stili degli anni

precedenti sembravano essere superati e già da più parti

si delineava un nuovo stile che, confluendo con la musica

suonata alla maniera di New Orleans e Chicago diede

origine ad uno dei più importanti momenti del jazz,

quello della sua massima affermazione di pubblico: lo swing

 

4 – SWING

In quegli anni iniziò la seconda migrazione dei musicisti

che si spostarono da Chicago a New York.

La parola swing per lungo tempo parola chiave del jazz

viene impiegata in due accezioni diverse: swing inteso

come elemento ritmico della musica jazz, difficilmente

riproducibile sul pentagramma e soggetto pertanto ad

una forte personalizzazione da parte dei musicisti; swing

inteso come lo stile musicale degli anni trenta, con il

quale il jazz raggiunse il massimo successo commerciale.

La caratteristica peculiare dello swing è costituita dalla

formazione delle big bands dovuta principalmente alla

esigenza di creare un rilevante volume sonoro sufficiente

alla sonorizzazione dei grossi locali da ballo. Dal 1925 al

1929, nelle città di Harlem e Kansas City, le grandi

orchestre di Duke Ellington e di Fletcher Henderson

impostarono un radicale rinnovamento del jazz, con la

messa a punto del linguaggio orchestrale.

Queste grandi orchestre fissarono le fondamentali

caratteristiche strutturali delle orchestre stesse, formate

da tre distinte sezioni di fiati: trombe, tromboni e

sassofoni in numero variante dai tre ai cinque strumenti

per sezione, oltre ad una sezione ritmica comune anche

ai piccoli complessi, formata da pianoforte, chitarra,

contrabbasso e batteria.

Le orchestre suonavano la loro musica e si

caratterizzavano per la personalità del loro leader il quale

definiva l’impostazione del suono della band attraverso

gli arrangiamenti scritti. Completavano il quadro gli

interventi improvvisati dei solisti, cosicché, l’affermazione

delle big bands corrisponde, allo stesso tempo, alla

affermazione dei migliori solisti.

Tutti questi elementi, già in buona parte presenti, come

abbiamo visto, nello stile di Chicago, trovarono nello

Swing la massima affermazione e diffusione, ed il loro

perfezionamento.

La crisi americana del 1929 costituì una grossa battuta di

arresto per il jazz; in quella occasione molti musicisti

furono costretti a cambiare mestiere o a trovare qualche

impiego nei locali gestiti dai gangsters locali dediti al

controllo della prostituzione ed al traffico clandestino di

alcoolici durante il proibizionismo.

Proprio grazie a queste possibilità, il jazz continuò a

sopravvivere, specialmente nella città di Kansas City,

dove la vita notturna non ebbe praticamente interruzioni

e crisi, nei locali gestiti dai boss della malavita bianca. A

Kansas City si affermarono alcune delle più importanti

grandi orchestre, come quella di Benny Noton o quella di

Count Basie, e trovarono il loro momento di gloria i

grandi solisti Ben Webster, Coleman Hawkins e Lester

Young, o le grandi cantanti come Billie Holiday.

Kansas City vide nascere una vera e propria scuola

solistica che formerà alcuni dei grossi nomi del jazz

moderno, uno tra tutti: Charlie Parker.

Bisognerà comunque attendere il superamento della crisi

economica per assistere al rilancio in grande stile del

jazz, quando, verso la metà degli anni trenta, raggiunse

con lo Swing il suo culmine commerciale, segnando

contemporaneamente la sua decadenza, logorato dal suo

stesso successo, nel momento in cui le esigenze di

cassetta soppiantarono la spontaneità e la vitalità delle

origini.

 

 

5 – BEBOP

Quando l’insoddisfazione dei solisti per il ristretto ambito

loro concesso nelle big bands, raggiunse il culmine,

questi si ritrovarono a cercare rifugio, al termine del

lavoro in orchestra, nei piccoli jazz-club, che nel

frattempo si erano moltiplicati, proponendo ogni sera le

loro performance; lì, superando gli stereotipi musicali a

loro imposti dalle esigenze del pubblico, prepararono la

prima vera grande rivoluzione, non solo stilistica, ma

anche culturale, del jazz.

Nei piccoli clubs di Harlem il Monroe’s o il Minton’s ad

esempio dopo il lavoro regolare nelle orchestre, molti

solisti si riunivano in piccole formazioni con le quali

sperimentavano nuove soluzioni armoniche e nuovi

arrangiamenti, con l’intento di superare l’insoddisfazione

delle limitazioni e costrizioni subite nelle big bands.

Così si sviluppò un movimento musicale che, partendo

dalla esigenza di individuare nuove forme di espressione,

si trovò alle prese con l’ambizioso progetto di conferire al

jazz la qualifica di forma d’arte a tutti gli effetti, al di

fuori dello showbussiness legato allo Swing e ai gusti del

pubblico, affermando, al contempo, la pretesa del popolo

nero e delle classi emarginate della società americana di

accreditare la propria cultura ed il superamento dei

pregiudizi razziali.

Quello dei boppers divenne un vero e proprio movimento

culturale e di tendenza che accumunava le posizioni di

“elitismo” artistico dei musicisti neri, all’esistenzialismo

delle giovani generazioni americane che si ribellavano al

mondo borghese, razzista e perbenista delle generazioni

precedenti.

Un movimento che si esprimeva non soltanto con la

musica, ma anche con una propria originale immagine

che si traduceva nell’imitazione di modelli di vita senza

regole e limitazioni, il cui riferimento era costituito dal

personaggio emblematico del bop, Charlie Parker.

Anche il nome del nuovo stile esprimeva in sé questi

elementi. La parola be-bop infatti, può essere riferita

tanto al suono onomatopeico dell’intervallo di quinta

diminuita, tipico delle nuove armonizzazioni utilizzate dai

boppers, quanto, nel linguaggio gergale della gioventù

outs, rissa, coltellate o meglio ancora, rivolta

(J.E.Berendt, Il libro del jazz, pg. 22).

Intorno all’idea di rivolta nei confronti dello Swing

commerciale e di una radicale trasformazione delle

intenzioni dei musicisti, si formo’, con i contributi più

disparati e senza un organico programma, uno stile dal

fraseggio nervoso e frammentato, basato sulla

disintegrazione della melodia, giocato su velocissimi

cromatismi, nuove soluzioni armoniche e ritmiche

furiose. Ciò provocò la reazione immediata del pubblico,

disorientato dal nuovo linguaggio proposto dai boppers,

e non ancora pronto all’impatto con l’ideologizzazione

della musica, specialmente il pubblico dei neri. Il

superamento degli stereotipi dello Swing si tradusse,

così, in un ritorno al jazz delle origini, con una rilevante

rifioritura, non soltanto americana, dello stile New

Orleans e del Dixieland. Ma per i musicisti, al di là del

messaggio ideologico, il ricco patrimonio innovativo del

be-bop non poteva che costituire un momento di

importante riflessione e la possibilità di percorrere nuove

strade espressive.

 

 

 

6 – COOL  JAZZ

Esaurita la spinta ideologica che aveva sostenuto la

trasformazione radicale imposta dal be-bop, il jazz

moderno entrò in una fase di assestamento nella quale si

stabilizzarono gli elementi e le nuove concezioni

armoniche introdotte.Verso la metà degli anni cinquanta,

la schizofrenia be-bop lasciò il posto a soluzioni più

razionali ed equilibrate; venne riscoperto, in primo luogo,

il contenuto melodico del jazz, che il be-bop aveva fatto

a pezzi, ed una dimensione più rilassata delle ritmiche, in

netta antitesi con i frenetici tempi staccati dai vari Charlie

Parker e Dizzy Gillespie.

Accanto a questi elementi squisitamente musicali, la

necessità, per chi della musica faceva la propria

professione, di recuperare il pubblico perduto, impose le

nuove tendenze stilistiche del jazz degli anni cinquanta.

La concezione cool del jazz, si impose ad opera di alcuni

personaggi chiave per il suo sviluppo e per la sua

evoluzione.

Da un lato, il nero Miles Davis.Davis, che giovanissimo si

era formato alla scuola di Parker, nella cui band aveva

sostituito Gillespie alla tromba, imponendosi, già da

allora, come brillante promessa, fu, probabilmente, il

primo musicista nero ad avvertire la necessità di un

ripensamento dei radicalismi del be bop in una chiave più

proponibile al grande pubblico.

Le sue incisioni degli anni cinquanta rimangono una

importante e decisiva testimonianza dello sforzo

compiuto per individuare una soluzione espressiva di

ampio respiro estetico, che abbracciasse, oltre che la

tradizione jazzistica, la tradizione musicale colta ed

europea.

Una direzione di ricerca che percorre un sentiero che

attraversa tutta la tradizione complessiva della musica

afroamericana e che va da Bix Beiderbecke a Lester

Young, da Red Norvo alle piccole formazioni dirette da

Benny Goodman.

Da un altro versante, il pianista bianco Lennie Tristano,

con la sua New School of Music e i musicisti che si

formarono in essa: Lee Konitz, Warne Marshe, Billy

Bauer.

Queste tendenze, alle quali si può riconoscere l’intento di

ricerca, assieme alle esperienze più spontanee di Gerry

Mulligan, di Dave Brubeck, del jazz da camera del

Modern Jazz Quartet di John Lewis e Milt Jackson,

costituiscono il movimento cool.

La sintesi dell’esperienza davisiana e di quella più

propriamente cool comporta la nascita, sulla costa

occidentale della California, di una corrente stilistica,

prevalentemente bianca, denominata, appunto, West

Coast, che tra il 1952 ed il 1958 vide in primo piano

l’orchestra di Stan Kenton e solisti come Shelly Mann,

Shorty Rogers, Jimmy Giuffre, i quali proposero una

musica che non obbediva ad alcuna regola ben definita,

ma che contiene elementi unificanti e riconoscibili, tali da

determinarne una caratterizzazione stilistica peculiare.

 

7) HARD – BOP

I contenuti e gli approcci classicheggianti del cool e della

West Coast, provocarono la reazione dei musicisti neri, i

quali, ad eccezione di Miles Davis e John Lewis, si

ritrovarono imbrigliati in questa nuova concezione

musicale.La loro reazione, fu indirizzata al recupero delle

caratteristiche più marcatamente nere del jazz: le

influenze gospel e blues, l’immediatezza, in contrasto con

il jazz arrangiato del movimento cool, e soprattutto la

scansione ritmica.

Accanto alle semplici progressioni tipiche, trovarono

spazio le soluzioni armoniche del be-bop ed i temi

tradizionali che si aggiunsero alle composizioni originali.

Questa tendenza stilistica viene denominata Hard-bop e

presenta, quali elementi qualificativi, le denominazioni

concorrenti di East Coast Jazz per indicarne la

contrapposizione con lo stile West Coast di Funky per

esaltarne le commistioni con il blues ed il gospel o

ancora di post-bop per metterne in risalto la più

immediata derivazione dal be-bop rispetto allo stile cool.

Dal punto di vista melodico ed armonico, l’hard-bop

appare caratterizzato dalla bluesizzazione dei temi,

attraverso strutture armoniche che esaltano il rapporto

sottodominante-tonica (IV-I) tanto nel modo maggiore,

quanto nel modo minore, e dall’utilizzo di sezioni ritmiche

più omogenee e agili di quelle be-bop.

Le formazioni guida del periodo sono il quintetto con sax

e tromba (Quintetto di Clifford Brown e Max Roach ), o il

sestetto con sax, tromba e trombone (Jazz

Messengers di Art Blakey, Jazztet di Benny Golson e Art

Farmer).

 

8 -MODALE

Le esperienze cool e hard-bop si imposero in modo

uniforme nel panorama jazzistico per tutto il corso degli

anni cinquanta, fino a divenire, nei diversi atteggiamenti

assunti dai vari gruppi operanti, un aggregato stabilizzato

di tutti gli elementi musicali radicalmente innovativi

introdotti dal be-bop e dei più classici contenuti del jazz

pre-bop.

Con la sedimentazione di tali elementi, che diventano

propri del jazz moderno, arrivò ben presto, comunque, la

stereotipizzazione e la monotonia. Quando, ancora una

volta, la ossessiva ricerca di diversi ambiti di espressione

da parte dei musicisti diventerà una esigenza pressante,

la sperimentazione di nuove soluzioni arriverà attraverso

il lavoro di Miles Davis coadiuvato dal sassofonista tenore

del suo quintetto, John Coltrane.

Con Milestone (1958) Davis introduce, nelle esperienze

congiunte di cool e hard-bop, la concezione modale, che

si caratterizza per l’impiego di armonizzazioni povere,

basate su lunghe sequenze di uno o due accordi sulle

quali si improvvisa utilizzando melodie elaborate su modi

o scale costruiti al di fuori delle due principali modalità:

maggiore e minore.

L’impiego di questi semplici schemi armonici consente al

solista di superare la monotonia delle melodie costruite

sulle tradizionali progressioni armoniche tonali,

rendendolo contemporaneamente più libero di spaziare a

proprio piacimento entro la costruzione dei modi e senza

la limitaziòne di una vincolante struttura di accordi.

L’esperimento di Davis con Milestone verrà portato a

compimento con un’opera fondamentale che segnerà un

momento importante per l’evoluzione stilistica ed un

altrettanto importante spartiacque tra le due tendenze

musicali degli anni sessanta.

L’opera in questione è Kind of Blue (1959), dove le

intuizioni di Davis e Coltrane trovarono, attraverso il

contributo del giovane pianista bianco Bill Evans, la loro

giusta collocazione ed una sistemazione organica e

definitiva, oltre ad un risultato estetico tra i più

apprezzabili in tutto il panorama musicale jazzistico. Da

Kind of Blue, due strade saranno percorse

successivamente. La modalità, mescolata ai modi abituali

più classici ed al sistema tonale, sarà sviluppata da Bill

Evans e, filtrata dalla sua immensa sensibilità e dal suo

senso estetico, diverrà patrimonio di giovani musicisti

come Herbie Hancock, Chick Corea, Keith Jarrett, Gary

Burton e nuovo terreno fertile per quei musicisti formatisi

nell’esperienza cool, come il chitarrista Jim Hall.

Su un altro versante il jazz intraprese la strada del free

jazz.

 

9) FREE JAZZ

L’approfondimento radicale degli elementi modali

introdotto nel jazz porterà alcuni solisti a raggiungere

dimensioni sempre più libere e meno convenzionali, sulle

orme del sassofonista John Coltrane.

In ogni caso, dopo gli anni settanta, la modalità diverrà

parte integrante del jazz contemporaneo, stemperandosi

nelle diverse concezioni stilistiche, dal free alla fusion.

Nel 1960 Ornette Coleman utilizzò per primo la accezione

di Free Jazz, incidendo, con quel nome, uno storico

album nel quale due quartetti contrapposti, partendo da

una modalità e da una scansione ritmica predeterminate,

improvvisano liberamente svincolandosi, mano a mano,

dalle stesse.

Da questo esperimento, si svilupperà una tendenza che,

cercando la rottura completa ed incondizionata con

quanto fatto in precedenza nel jazz – stili, forme e

strutture – cercherà la propria strada al di fuori

dell’armonia e della ritmica prestabilite, lasciando al

solista unicamente la sua più libera improvvisazione.

Accanto al discorso musicale, ancor più che nel bebop,

ancora una volta troviamo la presa di coscienza,

l’evoluzione della condizione, la lotta per l’emancipazione

del popolo nero.

Un popolo nero che è convinto di dover incidere in

maniera netta e determinata nella società americana,

troncando definitivamente ogni legame con quella

società, fino al suo completo superamento. E’ il periodo

dei grandi movimenti neri di Martin Luther King e di

Malcolm X.

L’atteggiamento si traduce, in campo musicale, nella

demolizione di forme e schemi, nella ricerca delle origini

del jazz e nel recupero del gusto, dell’entusiasmo,

dell’immediatezza di quelle origini, come nel caso

dell’improvvisazione collettiva che diviene momento

coagulante della rabbia del singolo, nella rabbia e nel

grido collettivo del blackpower.

Oltre a questo, esiste la convinzione del rinnovamento

possibile soltanto attraverso il taglio netto con le

influenze musicali bianche. La rivolta investe i temi, i

ritmi segnati, la tecnica strumentale accademica, visti

come elementi di costrinzione alla voglia di gridare la

propria liberazione. Insomma, un radicale mutamento di

atteggiamento verso la musica.

Se nel be-bop, infatti, l’atteggiamento rivoluzionario si

tradusse nella individuazione di nuove forme che

esaltassero la trasgressività, il movimento free non ha

bisogno di essere trasgressivo, ma di abbattere la forma:

non rifiuta il sistema collocandosene ai margini, ma lo

combatte, per il suo definitivo annientamento.

Entro i confini del free operarono le più diversificate

esperienze, proprio per la necessità di consentire a

ciascuno di fare i conti solo ed esclusivamente con la sua

sensibilità.

Ovvio che il risultato non può che riflettere tale

sensibilità: è apprezzabile quando il solista è artista e gli

esempi non mancano: Don Cherry, Cecil Tylor, Ornette

Coleman, Pharoah Sanders, Albert Ayler; difetta, quando

la mancanza di una progettualità non è neanche

adeguatamente supportata da una grande capacità

inventiva e comunicativa. Paradossalmente, il movimento

free non abbracciò il pubblico nero, tradendo le

intenzioni dei musicisti free ed i loro propositi di

costituire un terreno musicalmente unificante della

cultura nera.

 

10 – JAZZ ROCK

Il pubblico nero, nel periodo più alto del free, si era

allontanato dal jazz, avvicinandosi a forme musicali di più

diretta derivazione nera, quali il blues, il rhythm & blues,

o di più immediata fruibilità, quale è il rock.

Il free divenne, invece, prerogativa dei movimenti

giovanili bianchi e delle loro lotte studentesche e

rivoluzionarie di fine anni sessanta. Ancora una volta fu

Miles Davis ad intuire che l’intento di recuperare il

pubblico nero al jazz doveva passare necessariamente

attraverso l’avvicinamento del jazz alla musica rock.

Dopo l’esperienza di Kind of Blue il trombettista percorse

varie strade, con l’intento di rinnovarsi periodicamente e

di incontrare costantemente il favore commerciale. Molti

solisti si avvicendarono nelle diverse formazioni da lui

capitanate, tentando, di volta in volta, soluzioni

compromissorie ora con il modale più spinto, ora con il

free. Erano percussionisti latino-americani, musicisti della

pop-music, pianisti elettrici, batteristi free.

Attraverso l’utilizzo della strumentazione elettrica, dei

tempi rock e latini, di temi presi in prestito dalla popmusic,

Davis effettuerà una mirata scelta attraverso la

quale si confronteranno tra loro esperienze le più

diversificate e fascie di pubblico eterogenee, indirizzando

il jazz verso una nuova stagione felice e verso risultati

creativi notevoli.

 

11) FUSION

Il panorama jazzistico che ci troviamo di fronte in questi

ultimi anni è frutto di un lungo lavoro di mediazione e

contemperamento delle diverse esperienze passate.

Le nuove tendenze del jazz degli anni ottanta raccolgono

il contributo del notevole cammino evolutivo compiuto

dal jazz in un periodo di tempo relativamente breve,

fornendoci un insieme stratificato e poliforme.

Accanto agli sviluppi della modalità contaminata da

elementi classici convivono innumerevoli forme di

contaminazione del jazz con altre forme musicali, che

sarebbe riduttivo ricondurre ad una peculiare

connotazione stilistica. Per questo si e preferito

denominare fusion queste esperienze, abbandonando la

formula jazz rock usata nel decennio precedente.

L’ascoltatore si trova a contatto alle molte strade della

possibile linea evolutiva della musica jazz, senza essere

in grado di individuare con certezza quale sarà quella

vincente.

Quelle più interessanti provengono dall’utilizzazione

dell’elettronica, attraverso la quale sembra che il jazz si

sia rivitalizzato. Il riferimento immediato è a Pat

Metheny, a Michael Breacker e, ancora una volta, a Miles

Davis, la cui ultima produzione, sicuramente pregevole, è

stata il sintomo della sua immensa capacità di cogliere gli

elementi qualificanti in grado di conferire al jazz la spinta

evolutiva della quale, forse, si comincia a

sentire il bisogno, dal momento che si ha sempre

bisogno che il nostro amore si ravvivi

 

 

12 ACID JAZZ

E’ qualche tempo che, nel panorama musicale, circola la

definizione di acid jazz. Che cosa è l’acid jazz? E’ uno

stile musicale funky che incorpora elementi di jazz, funk

degli anni ’70, hip-hop, soul e tante altre cose. Un fritto

misto, dunque, che, rielaborando il concetto di fusion,

punta alla integrazione di ogni possibile elemento

musicale contemporaneo, contrapponendosi, però, a

quella tendenza del Rap che su basi di musica jazz gioca

con le parole: il vero interesse dell’acid jazz è la

componente musicale.

In ogni caso, è pressoché impossibile, al momento, dare

una definizione precisa di acid jazz, dal momento che la

proposta dei vari gruppi emergenti che si riconoscono

nella definizione, è estremamente articolata e

differenziata. Non resta che ascoltare

 

 

 

ALBUM CONSIGLIATI

John Coltrane: A Love Supreme (Impulse!, 1964)

Charles Mingus: The Black Saint And The Sinner Lady

(Impulse!, 1963)

Albert Ayler: Witches and Devils (Freedom, 1964)

Cecil Taylor: Unit Structures (Blue Note, 1966)

Miles Davis: Kind Of Blue (Columbia, 1959)

Don Cherry: Mu (BYG Actuel/Get Back, 1969)

Anthony Braxton: Saxophone Improvisations (America, 1972)

John Coltrane: Giant Steps (Atlantic, 1959)

Ornette Coleman: The Shape of Jazz To Come (Atlantic, 1959)

Eric Dolphy: Out to Lunch (Blue Note, 1964)

Lennie Tristano: Crosscurrents (Capitol, 1949)

Miles Davis: Bitches Brew (Columbia, 1969)

Thelonious Monk: Brilliant Corners (Riverside, 1956)

Charles Mingus Pithecanthropus Erectus (Atlantic, 1956)

Albert Ayler: Vibrations (Debut, 1964)

John Coltrane: My Favorite Things (Atlantic, 1960)

Ornette Coleman: Free Jazz (Atlantic, 1960)

Charles Mingus: Presents (Candid, 1960)

Anthony Braxton: Alto Saxophone Improvisations (Arista,

1979)

Sonny Rollins: Saxophone Colossus (Prestige, 1956)

David Holland: Conference of the Birds (ECM, 1972)

George Russell: Ezz-thetics (Riverside, 1961)

Weather Report: I Sing the Body Electric (Columbia, 1972)

Borbetomagus: Barbet Wire Maggot (Agaric, 1983)

George Russell: Electronic Sonata For Souls Loved By Nature

(Soul Note, 1980)

Andrew Hill: Point of Departure (Blue Note, 1964)

Charles Mingus: Oh Yeah (Atlantic, 1961)

Gato Barbieri: Latin America (Impulse!, 1973)

Charles Earland: Black Talk (Prestige, 1969)

John McLaughlin: My Goals Beyond (Columbia, 1970)

Matthew Shipp: Circular Temple (Quinton, 1990)

Archie Shepp: Mama Too Tight (Impulse!, 1966)

Roscoe Mitchell: Sound (Delmark, 1966)

Max Roach: Freedom Now Suite (Columbia, 1960)

Coleman Hawkins: Body & Soul (RCA Victor, 1939)

Bobby Hutcherson: Dialogue (Blue Note, 1965)

Michael Formanek: Wide Open Spaces (Enja, 1990)

Charles Mingus: Tijuana Moods (1957) (RCA, 1962)

Steve Lacy: Regeneration (Soul Note, 1982)

Miles Davis: Birth of the Cool (Capitol, 1949-50)

Randy Weston: Blues To Africa (Freedom, 1974)

Sam Rivers: Crystals (Impulse!, 1974)

Albert Ayler: Spiritual Unity (ESP, 1964)

McCoy Tyner: Sahara (Milestone, 1972)

Steve Lacy: Scraps (Saravah, 1974)

Matthew Shipp: Pastoral Composure (Thirsty Ear, 2000)

Duke Ellington: The Far East Suite (RCA, 1966)

Sonny Rollins: Freedom Suite (Riverside, 1958)

Don Cherry: Symphony For Improvisers (Blue Note, 1966)

Pat Metheny: As Falls Wichita So Falls Wichita (ECM, 1980)

Paul Motian: Conception Vessel (ECM, 1972)

Chick Corea: Inner Space (Atlantic, 1966)

Bill Frisell: Before We Were Born (Elektra, 1988)

Ralph Towner: Diary (ECM, 1973)

Martial Solal: Four Keys (Pausa, 1979)

Charlie Haden: Haunted Heart (Verve, 1991)

Oregon: Music Of Another Present Era (Vanguard, 1972)

Charlie Haden: Etudes (Soul Note, 1987)

Terje Rypdal: Eos (ECM, 1983)

Don Cherry: Orient (BYG, 1971)

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